Un anno fa si spegneva Kobe Bryant. Un incidente in elicottero faceva perdere la vita al campione di basket, alla figlia Gianna Maria e ad altre sette persone.
Ognuno di noi si ricorda dov’era e cosa stava facendo il 26 gennaio del 2020. Era una domenica come tante altre, per quanto riguarda lo sport c’era molta attesa per il big match di serie A tra Napoli e Juventus. La serata sembrava trascinarci stancamente verso una notte da trascorrere, con la testa al ritorno al lavoro dopo il lungo weekend. Poi, alle 18.06 ora italiana, l’incidente che avrebbe scosso per sempre le nostre coscienze. Poco per volta, la notizia inizia a circolare: Kobe Bryant è morto.
Considerando come vanno le cose, specialmente in questi ultimi anni in cui la fuga di notizie tende sempre di più verso il fake, il falso, sono veramente in pochi a crederci. E così inizia la ricerca estenuante ed esasperata. Si evita in maniera sistematica Facebook, divenuto purtroppo il covo di queste fake news. E allora si va su Twitter, si scandagliano i siti di informazione americani. Smettiamo di essere dei semplici fruitori dell’informazione sul web e ci trasformiamo in investigatori. Veri e propri cani da fiuto per capire se fosse tutto vero. Ed era tutto vero.
Kobe Bryant ci lasciò all’improvviso, quando c’era ancora tanto da fare nonostante le scarpe da basket le avesse tolte ormai da più di un anno. E se ne andò proprio mentre stava provando a darsi da fare. Aveva deciso di far alzare il suo elicottero per condurre la figlia Gianna Maria (divenuta per tutto Gigi), sue compagne di squadra, genitori e staff per un camp in California. Quel volo in elicottero, però, sarebbe stato l’ultimo per nove vite spezzate. Un errore, un problema tecnico improvviso e irrimediabile. Il destino che ci porta via un grande campione e distrugge diverse famiglie.
Kobe Bryant non riusciva a stare fermo. Poche ore prima di vedere la sua vita schiantarsi sulle rocce di Calabasas, era stato a Philadelphia. L’intento era quello di rendere omaggio a un grande rivale sul parquet, divenuto amico dopo che finivano i 48 minuti in campo. È LeBron James, che proprio in quella notte superava Kobe nella classifica dei marcatori in NBA di tutti i tempi. Il canestro, il timeout chiamato ad hoc, l’applauso del pubblico della ‘città degli angeli’, il cenno d’intesa con il suo erede tecnico e carismatico. Tutto proprio nella città che poco meno di 42 anni prima gli aveva dato i natali.
Di Kobe Bryant si è spesso parlato a proposito del suo legame con l’Italia. Lui che per ben sette anni visse nel nostro Paese, al seguito di papà Joe. Prima Rieti, poi Reggio Calabria e Pistoia, infine Reggio Emilia. Quest’ultima gli dedicherà una piazza, a un anno dalla sua scomparsa. Un legame fortissimo che è rimasto tale anche dopo il ritorno in patria. C’era da pensare alla sua istruzione e alla coltivazione di un talento smisurato, che evidentemente il buon Joe gli aveva trasmesso. Misteri della genetica. Da lì in poi, un volo senza paura della quota da raggiungere, la più alta di tutti.
Non passerò e non passeremo in rassegna quanto di eccezionale e unico ha fatto Kobe Bryant sui parquet degli Stati Uniti e di tutto il mondo. Kobe è stato l’uomo capace di zittire chi credeva che senza Shaquille O’Neal non avrebbe più vinto nulla: sono arrivati altri due titoli NBA. Kobe ha dimostrato che la bravura e il talento non hanno età: nella sua ultima gara in carriera ha segnato 60 punti. Kobe ha dimostrato che si può essere grandissimi e dignitosi anche quando si rappresenta un’intera nazione: ha vinto due medaglie d’oro olimpiche.
Kobe Bryant è stato un colosso. È stato capace di essere uno di noi, con quella naturalezza che nel bene e nel male è venuta fuori. È stato capace di sbagliare, ammettere i propri errori e redimersi, ritrovando un amore che sembrava ormai perduto. È stato capace di essere il migliore di tutti nonostante tutto. Kobe Bryant era, è e sarà per sempre Kobe Bryant.