Dal sold out di Atalanta-Valencia agli assembramenti di Milan-Inter, è trascorso un anno ma San Siro rischia di continuare ad essere un luogo super-diffusore per il Coronavirus. Il calcio può davvero ripartire senza il senso di responsabilità dei tifosi?
L’Italia si sveglia e scopre il primo caso di Coronavirus autoctono. Per il Paese, il primo in Europa a dovere affrontare l’ingresso nelle case dell’infezione, è l’inizio di un incubo. La Lombardia diventa la Wuhan italiana, prima che l’epidemia si espanda nelle restanti Regioni. Da quel momento, destinato ad essere uno spartiacque, la vita di ciascuno di noi non è più stata la stessa. L’obiettivo di chiunque è diventato quello di lottare contro un nemico invisibile, in prima linea nelle corsie degli ospedali o in quelle di un supermercato. I punti cardine delle vite di ognuno vengono rappresentati dal distanziamento sociale e dalle mascherine. Proteggersi per tornare al più presto alla normalità. L’incubo, a distanza di un anno esatto, non è ancora giunto al termine.
La Lombardia, la Regione più colpita dal Coronavirus in Italia, è da qualche giorno diventata zona gialla. La popolazione respira una libertà inedita, nei limiti di ciò che viene consentito dalle misure di restrizione. Le saracinesche dei ristoranti tornano ad alzarsi, le vetrine dei negozi a riaccendersi. La gente passeggia godendosi un’aria nuova. Una libertà che, tuttavia, nasconde la paura di piombare nuovamente nell’incubo. Eppure, non tutti se ne curano.
È quello che, ad esempio, è accaduto ieri, a soltanto poche ore da Milan-Inter, derby della Madonnina valido per la ventitreesima giornata di Serie A. Cori, striscioni e tifosi stretti uno con — o contro, date le scintille — l’altro. Le mascherine, una apparizione questa volta quasi mistica, per lo più abbassate sotto il mento. Il distanziamento sociale che lascia spazio alla calca rumorosa. La tifoseria rossonera, da piazzale Axum, per avvicinarsi al pullman della squadra di Stefano Pioli situato nel parcheggio invade più volte il “territorio” di quella nerazzurra, nella zona del noto “Baretto”, venendo rispedita al suo posto con l’aiuto delle forze dell’ordine. Non sono presenti soltanto ultras, ma anche curiosi. Famiglie con bambini in braccio. Le autorità vigilano a distanza ma non sgomberano l’affollata area, in modo che le telecamere possano individuare i responsabili della calca. Le indagini hanno già avuto inizio e per i presenti scatteranno multe per 400 euro ciascuno. Per un attimo, ad ogni modo, a San Siro è sembrato che non fosse mai accaduto nulla. Un derby come quello degli anni precedenti. Il timore, però, è che possano arrivare conseguenze a lungo termine.
È così che al Meazza è sembrato quasi di essere tornati a dodici mesi prima. L’unica differenza è stata nel fatto che nessuno è potuto entrare tra le mura dell’impianto né sedersi sugli spalti per assistere allo spettacolo. A differenza di quanto accaduto durante la gara di Champions League tra Atalanta e Valencia, andata in scena proprio a San Siro il 19 febbraio 2020, soltanto due giorni prima della scoperta del Paziente Uno, che a posteriori fu ritenuta dagli esperti il Big Bang della pandemia in Italia. Quest’ultima, nella prima ondata, si concentrò in modo inarrestabile nella provincia di Bergamo. Un bergamasco su tre (per un totale di 44 mila spettatori), infatti, era allo Stadio nella straordinaria notte della Dea.
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La pratica di sostenere la squadra fuori dagli impianti è sempre più diffusa dall’inizio della pandemia. Le norme utili a evitare la diffusione del Coronavirus, infatti, hanno impedito ai tifosi di entrare negli Stadi, ma non hanno finora regolamentato e vigilato in maniera stretta su quello che è il contorno, ovvero l’extra-campo in cui i tifosi diventano protagonisti, violando le norme del buonsenso pur di essere presenti. Prima che per Milan-Inter, infatti, era accaduto tante altre volte. In occasione della vittoria del Napoli allo Stadio Diego Armando Maradona contro la Roma, così come per l’Atalanta prima della gara contro il Cagliari. Ciò non accade, inoltre, soltanto a margine degli impegni delle squadre sul campo, ma anche con altre intenzioni, come per le proteste contro le società. Un atteggiamento ormai talmente abituale che, talvolta, viene anche giustificato, piuttosto che condannato. “Un’atmosfera da brividi. La vittoria la dedichiamo ai tifosi“, ha commentato Antonio Conte al triplice fischio del derby della Madonnina.
I maxi-assembramenti di San Siro non erano necessari, anzi sarebbero potuti essere evitati. In molti si chiedono come sia possibile che in diecimila siano arrivati a varcare i cancelli. Il focus della questione, forse, oggi non sono soltanto i rischi legati ai potenziali scontri, bensì quelli relativi al perdere di vista quel senso di responsabilità che da ormai un anno dovrebbe essere la chiave per uscire da un incubo. Non è certamente la prima volta che, nel mondo del calcio ed in tanti altri, si mette a rischio la propria sicurezza per sentirsi vivi. Un bisogno impellente di tornare alla normalità, anche a costo di correre pericoli più grandi. È così che gli ultras non vogliono più stare a tifare davanti al televisore. E non soltanto loro. A sventolare le proprie sciarpe e bandiere davanti allo Stadio sono anche i sostenitori sciolti e le famiglie, che si mischiano dentro una calca che probabilmente un tempo non li avrebbe mai rappresentati.
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È inevitabile dunque chiedersi se riusciremo mai ad uscire da questo incubo, dato che appare impossibile frenare il desiderio di quotidianità. La popolazione non intende attendere di tornare alla normalità quando il Coronavirus sarà debellato, bensì vuole farlo immediatamente. Il circolo vizioso, in questo modo, appare senza fine. Quando si preannuncia un allentamento delle misure di restrizione, infatti, automaticamente si dà il via ad un liberi tutti che causa una inevitabile ricaduta. Oggi, alla luce del mancato senso di responsabilità che ha contraddistinto il mondo del calcio nelle scorse ore (con i fatti di Milan-Inter e non solo), la riapertura degli Stadi appare quasi impensabile. Gli spalti non possono tornare a riempirsi nel momento in cui tifare equivale a violare le regole. Non perché sia pericoloso in sé dare sostegno alla propria squadra, ma poiché ancora qualcuno non sembra avere imparato a mettere il bene comune davanti alla volontà di sentirsi protagonisti, oltre che accesi dalla propria passione.
Da un lato, dunque, riaprire gli Stadi oggi, in virtù di presupposti che non fanno ben sperare, appare un azzardo che porta con sé un rischio ancora incalcolabile. Dall’altro lato, tuttavia, a fronte di una assenza di regole che fermino solidamente la sfrenatezza del tifo extra-campo, viene da sé credere che forse concedere una parziale riapertura sotto il controllo delle forze dell’ordine potrebbe arginare gli spiacevoli eventi come — tra i tanti — quello recente di San Siro. Una sinergia tra i vertici del mondo del calcio e quelli del Governo, in tal senso, è indispensabile al fine di trovare una quadra che soddisfi ogni esigenza: da quella sociale a quella economica.
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